Le opportunità e le inside dei patti di non concorrenza
La scorsa estate la Cassazione è tornata a pronunciarsi per due volte su un accordo che viene spesso utilizzato nella prassi delle imprese: il patto di non concorrenza. Questo patto, disciplinato dall’articolo 2125 del codice civile, vincola il dipendente per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro a non svolgere alcune attività a favore di un’impresa concorrente della precedente datrice.
Vi sono però alcuni limiti, ossia non si possono imporre limitazioni troppo ampie. Più precisamente, la normativa stabilisce che il patto dev’essere scritto, non può durare più di tre anni (cinque nel caso dei dirigenti), dev’essere retribuito nonché (testualmente) va «contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo».
In concreto, spesso nascono contenziosi in merito al rispetto dei limiti legislativi ora visti. Si tratta di liti di difficile soluzione perché vanno bilanciati diritti e interessi contrapposti: da un lato la libertà del lavoratore di cambiare occupazione senza sottostare a divieti eccessivi, dall’altro l’esigenza imprenditoriale di non vedere propri collaboratori trasferirsi indisturbati alla concorrenza.
Il primo caso esaminato dalla Cassazione (deciso con ordinanza n. 23418 del 25 agosto) ha riguardato un dirigente bancario, sottoposto a un patto di concorrenza che lo vincolava a non svolgere, per tre mesi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, mansioni analoghe a quelle già prestate a favore del precedente datore in alcune regioni italiane.
Nella specie, in particolare si è discusso sulla modalità di retribuzione del patto. Solitamente infatti sono ritenuti illegittimi compensi costituiti da una quota dello stipendio mensile perché questo sistema di pagamento non dà al lavoratore alcuna certezza in merito all’entità del corrispettivo effettivamente pagato rispetto al sacrificio richiestogli: non è possibile infatti conoscere ex ante la durata del rapporto lavorativo e quindi neppure quanto verrà concretamente retribuito il patto di non concorrenza. In questo caso la Cassazione ha stabilito che il corrispettivo può essere versato durante il rapporto e che può crescere con il passare del tempo, purché comunque la sua entità sia stabilita prima così da consentire al dipendente per l’appunto di conoscere in anticipo il compenso (in quel caso 10.000 euro l’anno).
Nell’altro caso la Cassazione (ordinanza n. 23 del 1° settembre) si è pronunciata sulla validità di una clausola che consentiva all’impresa il diritto di recesso unilaterale dal patto di non concorrenza. Nella specie, l’ex dipendente aveva richiesto il pagamento del corrispettivo previsto per tale patto seppure l’impresa avesse esercitato il recesso ben sei anni prima della data in cui si era concluso il rapporto lavorativo. I giudici hanno dichiarato la nullità di tale clausola per contrarietà a norme imperative.
Questi due casi sono esemplificativi delle numerose controversie che nascono sul patto di non concorrenza. Solitamente si discute in merito alla sua ampiezza oggettiva e territoriale poiché le imprese vorrebbero precludere al dipendente di passare a concorrenti situati in zone molto ampie del territorio oppure impedire che il lavoratore continui a svolgere presso altre aziende mansioni in qualunque modo simili a quelle precedenti. In questi casi si tratta di stabilire se i vincoli siano compatibili con il principio secondo cui non è possibile comprimere la libertà del lavoratore sino al punto di comprometterne ogni capacità reddituale. Un’altra questione spesso dibattuta riguarda la legittimità e l’entità delle penali per l’eventuale violazione del patto (nel primo caso, ad esempio, è stata ritenuta congrua una penale di 100.000 euro).
In definitiva, lo scenario è complesso e variegato. Perciò prima di concordare un patto di questo tipo è necessario valutare accuratamente gli obiettivi perseguiti e il rapporto costi/benefici (ad esempio, andrebbe sottoscritto solo con specifiche figure-chiave) e poi redigerlo prestando attenzione al continuo evolversi dell’interpretazione della normativa.
Marco Mergati