La Cassazione torna sulla nullità selettiva degli ordini
Quello della nullità selettiva degli ordini di investimento in caso di carenza di forma scritta del contratto quadro è un tema più che ricorrente. La questione è nota: l’investitore che contesta in giudizio tale carenza formale chiede la dichiarazione di nullità solo degli ordini di investimento a valle del contratto quadro che si siano risolti in una perdita, senza nulla eccepire rispetto a quelli che hanno fruttato un rendimento. Al cherry picking del cliente gli intermediari sin qui hanno reagito contestando la nullità di tutte le operazioni scaturite dal contratto quadro (includendo cioè anche le operazioni in attivo), quando non l’abuso del diritto o la contrarietà a buona fede della scelta operata dall’investitore. Di qui il contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, tra chi riconosceva al solo investitore il diritto di giovarsi della nullità formale apprestata dall’art. 23 Tuf e di selezionare le relative conseguenze, chi riteneva che la nullità del contratto quadro travolgesse tutti gli ordini di investimento, e chi viceversa individuava nella nullità selettiva vuoi un abuso del diritto, vuoi una carenza di buona fede.
Su tale differenza di vedute sono intervenute le Sezioni Unite il 4 novembre scorso (sent. n. 28314), proponendo una sorta di compromesso. La Cassazione ribadisce che, attesa la specifica funzione di riequilibrio dell’asimmetria informativa tra intermediario e cliente, la nullità per carenza di forma è strumento azionabile solo dall’investitore, escludendo che la selezione degli ordini da invalidare possa ritenersi di per sé illegittima. Tuttavia riconosce che tale principio trova un contemperamento nel criterio di buona fede, tenendo conto delle peculiarità del caso concreto: in altre parole la nullità selettiva potrà ritenersi illegittima solo nel caso in cui, ponendo in comparazione le perdite generate dagli ordini impugnati dall’investitore con i profitti di quelli non contestati, possa ritenersi sussistente un pregiudizio. Resta escluso il diritto dell’intermediario a domandare in via riconvenzionale la restituzione dell’eventuale differenza positiva tra rendimenti e perdite.
La soluzione offerta si presta alla nota obiezione per cui la nullità formale dell’art. 23 Tuf inerisce il solo contratto quadro, di tal ché, venuto meno questo, tutti gli investimenti dovrebbero seguire la stessa sorte in applicazione dei principi generali del nostro ordinamento. Nondimeno, la pronuncia ha il pregio di riconoscere tutela all’investitore senza travalicare nel protezionismo, così preservando la stessa stabilità del sistema. Meno convincente è il richiamo contenuto, nella parte finale della motivazione, al riscontro di un sacrificio economico sproporzionato dell’intermediario quale canone di valutazione della malafede dell’investitore. Il concetto di sproporzione, in quanto implicante di per sé una valutazione discrezionale, stride non poco con il rigido criterio algebrico delineato nelle pagine precedenti della sentenza che alludono, in sostanza, a una compensazione (parziale). Basta che tale apparente dicotomia non dia adito a letture distorte o opportunistiche come già accaduto in passato: gli equivoci interpretativi sorti con la sentenza 350/2013 in tema di usurarietà degli interessi di mora sono un precedente per nulla rassicurante, in questo senso.