La blockchain conferma che sulla tecnologia governa il diritto

La tecnologia blockchain, divenuta celebre per la diffusione delle criptovalute, e spesso ad esse impropriamente associata in esclusiva, è una realtà più complessa, in continua evoluzione. In poche righe, la catena dei blocchi è una tecnologia che permette agli utenti di un network di effettuare operazioni di qualunque tipo, catalogate su un registro (ledger), attraverso dinamiche per alcuni versi inedite.
Il registro è «distribuito» cioè replicato sul computer di ciascun utente della rete, che può sia consultare i dati immodificabili ivi contenuti sia effettuare nuove operazioni. Queste ultime sono cifrate, certe e immodificabili solo qualora gli altri partecipanti alla rete ne convalidino la veridicità.

Così non solo si assicura l’immodificabilità di un’operazione e la consequenzialità rispetto alla precedente, ma si attribuisce a quest’ultima anche una marcatura temporale. Solo alla luce verde della verifica l’operazione potrà essere aggiunta al registro distribuito e quindi alla catena, validata dagli stessi utenti che vi prendono parte. Le possibili applicazioni di questa tecnologia sono infinite e, ad oggi, non del tutto esplorate (anzi spesso limitate al fenomeno criptovalutario, tanto temuto quanto incompreso: le criptocurrencies sono prodotti finanziari: punto e basta).

Non parliamo di fantadiritto o di pruriginose apocalissi visionarie. Lo scorso 11 febbraio è stata infatti pubblicata in G.U. la legge di conversione del decreto semplificazioni (dl 135/2018): il testo dell’art. 8-ter del decreto offre la definizione di «tecnologie basate su registri distribuiti», quale, appunto, la blockchain. Il sistema è già utilizzato da alcuni operatori della grande distribuzione per certificare l’origine delle materie prime e può divenire un’efficiente arma di lotta alla contraffazione e di tutela del diritto d’autore. Ma come? Chiariamoci: non esiste solo la blockchain carsica di Bitcoin & c. Esistono network privati che sfruttano la tecnologia e sono accessibili solo da utenti selezionati dall’amministratore del sistema.
Molte società – rivenditori di capi di abbigliamento o gioielli di lusso – stanno sviluppando piattaforme proprio per permettere ai vari soggetti della catena produttiva di fornire dati certi sulla provenienza dei prodotti.

Ciò potrà avverarsi, ad esempio, dotando tutti i prodotti di tag scannerizzabili, che permetteranno di risalire alle informazioni catalogate nel registro. In questo modo i consumatori potranno verificare speditamente la genuinità dei prodotti, mentre i produttori vigileranno sui «falsi» di mercato. Il sistema di certificazione e immodificabilità dei dati condivisi nel registro potrà anche permettere d’accertare la data di creazione o la provenienza di contenuti protetti dal diritto d’autore, garantendone la tutela ai legittimi titolari. Ma attenzione, non tutti i blocchi luccicanti sono oro: non ci si illuda di poter accedere ai registri all’ombra dello schermo di un pc. Nero su bianco, la normativa ha attribuito pieno valore giuridico alle operazioni di condivisione di informazioni in tali registri distribuiti.

Quindi, previa autenticazione, gli utenti potranno vincolarsi sulla base di condizioni da loro predefinite: in gergo smart contract. Starà agli utenti essere altrettanto smart e premurarsi di avere le carte in regola per offrire garanzie di affidabilità. La tecnologia è una gran trovata, pensare che stia fuori dal diritto è semplicemente una sciocchezza.

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Laureata a pieni voti nel marzo 2016 presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi in Diritto Industriale, entra a far parte dello studio nell’aprile 2016.
Si occupa prevalentemente di proprietà industriale e intellettuale, delle problematiche connesse alla concorrenza sleale e del diritto antitrust e svolge attività di ricerca e collaborazione con il Professor Ghidini.