Agroalimentare, nelle pratiche scorrette qualcosa è cambiato

Ormai da anni esiste(va) nel nostro Paese una normativa piuttosto articolata volta a tutelare la cosiddetta «filiera» agroalimentare, normativa che – nelle intenzioni del legislatore – era finalizzata a proteggere soprattutto i piccoli e medi produttori del settore dinanzi allo «strapotere» della Grande distribuzione organizzata (Gdo). Si trattava dell’art. 62 del d.l. 1/2012 (e relativo regolamento attuativo), introdotto dal governo Monti.
L’Ue ha poi deciso, con la direttiva 2019/633 (cd. direttiva Utp, acronimo di «Unfair trade practices»), di imporre a tutti gli Stati membri l’adozione di norme a tutela degli operatori della filiera. L’Italia ha attuato tale direttiva con il d.lgs. 198/2021, emanato a novembre dello scorso anno unitamente ad altre norme attuative di altre disposizioni europee per le quali pure l’attuazione non era stata tempestiva.
Ma visto che in Italia c’era già una normativa, è effettivamente cambiato qualcosa? Anche se, per certi versi tra «prima» e «dopo» vi sono molte analogie, in realtà molte sono le modifiche.
In queste righe si ricorderanno solo alcune novità, cercando di riepilogare le più significative. È cambiata, anzitutto, l’autorità chiamata a vigilare sul rispetto della normativa: non sarà più l’autorità Antitrust, ma l’Icqrf (ossia l’Ispettorato centrale tutela qualità e repressione frodi del Mipaaf). Sono poi stati ristretti i termini di pagamento a seguito della modifica della data di decorrenza. Tali termini sono tuttora differenziati per prodotti, rispettivamente, deperibili e «non deperibili»; è peraltro cambiata la definizione di detti prodotti poiché il riferimento non è più alle norme interne italiane, bensì all’allegato I del Trattato Ue. Sono state poi introdotte nuove disposizioni sui contratti della filiera, che devono avere durata minima annuale (salvo limitatissime eccezioni) e, su richiesta, forma scritta.
Peraltro, la nuova normativa riconosce – giustamente – che contraenti deboli non sono sempre e soltanto gli operatori della Gdo, ben potendo verificarsi che il market power sia invece detenuto dal produttore di beni agroalimentari (si pensi a certe multinazionali del food & beverage, non necessariamente straniere). E così la legge, nel prevedere limiti all’adozione di talune clausole contrattuali o prassi ritenute vessatorie a danno dei «fornitori» (il divieto di cui maggiormente si è parlato è quello delle aste cd. «a doppio ribasso», utilizzate per spuntare prezzi di acquisto bassissimi), ha introdotto alcune limitazioni anche a tutela degli «acquirenti» (ossia, tipicamente, i rivenditori: si veda ad es., art. 4.1, lett. g e art. 5.1, lett. m, o e p).
A ben vedere, però, una delle differenze più rilevanti non riguarda il raffronto tra «vecchie» e «nuove» norme, quanto le modalità, spesso diverse, con cui i singoli Stati europei hanno attuato la regolamentazione europea. Infatti, la direttiva Utp prevede soltanto che le sue regole costituiscano il livello minimo di tutela degli operatori della filiera, lasciando poi a ciascuna nazione la possibilità di introdurre norme più stringenti.
Ne è derivato che alcuni Stati hanno attuato la direttiva, di fatto, con una trasposizione pressoché letterale, mentre altri – Italia in primis – hanno introdotto modifiche di vario genere e portata.Per questa ragione, oltre ad adeguarsi al d.lgs. 198/2021 (normativa di non sempre agevole interpretazione) gli operatori del settore dovranno misurarsi anche con le variabili legislative tra le norme attuative dei vari Stati dell’Ue, che possono riguardare elementi molto importanti delle condizioni contrattuali: basti citare, tra gli altri, il caso di Ungheria e Slovacchia in cui il termine di pagamento è sempre di 15 giorni. Dunque, massima attenzione al puzzle normativo intraeuropeo: le sanzioni, infatti, possono essere salate.
Marco Mergati
Claudia Signorini