Il voto multiplo è solo una questione (non semplice) di scelta
Concentrare il potere o diluirlo? Chiudersi o aprirsi ai mercati del capitale? È questo uno dei dilemmi che la legge 5.3.2024 n. 21, nata dal ddl Capitali con cori polemici in sottofondo, pone oggi alle società. La normativa non andrà a regime prima del 2025. Il governo dovrà emanare una fiumana di decreti legislativi per centrare specifici e non facili obiettivi: incentivare la quotazione di pmi, attrarre investitori internazionali, razionalizzare la disciplina degli emittenti, semplificare la corporate governance, riordinare i controlli interni, uniformare la normativa su investimenti, assicurazioni, fondi pensione. Nel quasi immediato, però, alcune norme entrano in vigore, fra cui quelle che hanno dato più corda alle dispute: il voto multiplo e il metodo elettorale del cda. Mi soffermerò, qui, sul primo tema, mentre tratterò il secondo in un prossimo appuntamento della rubrica.
La riforma porta da 3 a 10 il moltiplicatore delle azioni a voto plurimo nelle non quotate e fa crescere, da 2 al 10, l’incremento del voto maggiorato nelle quotate (con addizioni di un voto ogni 12 mesi di detenzione ininterrotta delle azioni). Lo scopo sarebbe evitare l’offshoring delle società verso sistemi più elastici in fatto di dissociazione fra rischio di capitale e potere di governo e stimolare il reshoring di chi invece abbia già fatto questa scelta. Il riferimento è all’Olanda, dove celebri griffe industriali italiane hanno da tempo trasferito le proprie sedi legali e le retromarce appaiono altamente improbabili. Ne scrissi in passato, chiarendo come il fascino olandese non risieda tanto nella docilità di corporate governance quanto in ben altri benefici (MF-Milano Finanza del 25/7/2020). Del resto i voti multipli esistono anche in altri Paesi europei e in Italia da un decennio (grazie al decreto competitività del 2014), senza che quelle imprese siano rimaste qui né espatriate altrove che nei Paesi Bassi.
È indubbio che una società a rafforzata concentrazione proprietaria sia meno appetibile per investitori istituzionali avvezzi a investimenti di breve o medio periodo: effetto collaterale rivelatore dell’intrinseca contraddizione di un impianto normativo che vorrebbe, a un tempo, garantire il consolidamento dello storico comando aziendale e aprire le società ai mercati.
Sì, ma dov’è il problema? Il rafforzamento del voto non è un obbligo ma una facoltà: data l’inevitabile cortezza della coperta, starà alla singola società (cioè alla sua maggioranza) decidere se, attraverso una modifica statutaria, chiudersi a guscio, certa dell’autosufficienza che le derivi dall’autonomia della sua tolda di comando, invece che lasciare inalterata l’equazione ‘più rischio uguale più potere’ per attrarre nuovi capitali. Per le quotate la scelta è ancor più delicata, perché mentre la delibera di attribuzione del voto maggiorato di base (2) non dà alcun diritto al socio dissenziente, il graduale incremento sino al 10 gli concede di recedere con il rischio di un deflusso di capitale non indifferente, specie se pilotato da investitori istituzionali che non gradiscano che un socio al 10% con voto doppio possa votare per 5 nell’arco di un quadriennio.
Un recente studio, condotto dall’Osservatorio Imprese Corporate Governance Lab (Sda Bocconi) su un significativo campione di imprese, esalta la contrapposizione fra i due modelli. Le imprese che, nell’arco di otto anni, hanno concentrato la base proprietaria crescono di 13 punti in più di quelle rimaste stabili e di 20 punti rispetto a quelle che hanno optato per la frammentazione e registrano una crescita operativa superiore rispettivamente dello 0,8% e dello 0,3%. Invece, l’indice di corporate governance migliora del 7,1% per le frammentate e peggiora del 4,9% delle stabili. Meglio più potere subito o un governo societario più efficiente che darà frutto nel tempo? Una questione di scelta, nota sotto l’antico nome di rischio di impresa, oggi da ricalibrare con lungimiranza.
Emilio Girino
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