Una leva fiscale per calmierare i tassi dei prestiti bancari

Nel Bank Lending Survey del 25 luglio la Bce accerta il crollo, nel trimestre 2-2023, della domanda netta di prestiti delle imprese (-42 fra aprile e giugno). È la stessa Bce che due giorni dopo innalza i tassi al 4,25%, 4,5% e 3,75% (rispettivamente su rifinanziamenti principali, marginali e depositi). Insomma, ci si allarma per la caduta dei prestiti (nel frattempo il fixing dell’Euribor 3M viaggia intorno al 3,8%), ma si persevera nell’attizzare il fattore che la genera (il rialzo dei tassi a fini antinflattivi: decimo aumento solo una settimana fa).

Parrebbe il plot di un thriller finanziario distopico. Ecco invece palesarsi, in gelida realtà, l’insufficienza degli strumenti di politica monetaria per disinnescare un fenomeno inflattivo dovuto solo in parte a pregresse misure (l’allagamento di liquidità dell’ultimo decennio) ma per lo più a fattori macroeconomici e geopolitici di natura straordinaria. Una banca centrale taglia l’inflazione aumentando i tassi, comprimendo il potere di acquisto, riducendo indebitamenti, consumi e investimenti reali, cioè provocando – piaccia o no la parola – recessione. È questa la soluzione in un ciclo economico così unico, con un’inflazione spinta non da eccesso di domanda ma da esplosione anomala di costi? Ha un senso che la cinghia di trasmissione monetaria penalizzi il sistema bancario che dal credit crunch di certo non guadagna?

L’asticella distopica s’innalza analizzando i risultati degli stress test del giorno dopo (28 luglio). Condotti secondo parametri estremi (ipotizzando, lungo il triennio 2023-2025, un Pil del 6% inferiore alle previsioni, una disoccupazione a +6,1%, un rialzo dei tassi di 183 punti e crolli azionari, immobiliari e commerciali rispettivamente del 55%, 21% e 29%), nel worst scenario le banche europee nel complesso reggerebbero l’urto e le italiane manterrebbero un Cet1 (oggi in media al 15%) all’11,6, sopra la soglia d’intervento del 10,5 fissata dalla Bce e ben oltre il 9-10 registrato dalle banche tedesche e francesi. Senza considerare (si veda MF-Milano Finanza 20.5.2023) che le perdite sui titoli in portafoglio a bassa resa, svalutati dall’impennata dei tassi, ammonterebbero, se realizzate, a circa 73 miliardi di euro nella Ue contro i 620 miliardi di dollari delle banche americane.

Condotti con le stesse metodologie di stima interna utilizzate dalle banche, gli stress test non danno esiti scrivibili nella pietra, in concreto devono scontare variabili impreviste (in primis, un aumento di Npl in caso di recrudescenza della morsa recessiva). Ma la riflessione più significativa che la salute bancaria evoca è il crescente scollamento fra tenuta dei sistemi creditizi e crisi dell’economia reale (l’eurozona è ormai in frenata, Germania e Olanda in testa). Lo storico disallineamento fra borsa e mercati reali si ripropone sparigliando il rapporto banca-impresa. Un impianto bancario resistente alle crisi è una garanzia di solidità per l’intero sistema produttivo ma da solo non basta a rimuovere l’impasse economico. Serve una mossa prociclica a un triplice livello: 1) l’obiettivo inflazionistico deve rimisurarsi al netto delle componenti straordinarie (materie prime, trasporti ed energia) il cui peso deve continuare ad alleggerirsi attraverso interventi di sostegno pubblico; 2) le banche dovrebbero contenere il costo del credito per stimolare la domanda di prestiti, potendo però contare su una leva fiscale che neutralizzi il differenziale fra il tasso di mercato e il minor tasso applicato; 3) la Bce dovrebbe interrompere la catena di rialzo dei tassi, per poi invertire gradualmente il senso di marcia della trasmissione monetaria. Specchiarsi nel relativo bagliore degli stress test ma continuare a premere l’acceleratore dei tassi non ridurrà la spirale inflazionistica, semmai l’amplierà, impoverendo i consumi, contraendo il credito, intaccando la redditività delle banche. Altro che tassazione degli extraprofitti.

Thomson Reuters©
Stand-out Lawyer 2023

Scarica articolo in PDF

Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.