Sui mercati tra giungla e troppe regole la virtù sta nel mezzo
La frattura politico-istituzionale causata da Brexit ha avuto pesanti riflessi su una voce essenziale del pil britannico. Privata del passaporto Ue, abbandonata PMeraiazza Affari, la finanza d’oltremanica gioca ogni carta possibile per recuperare peso nello scacchiere europeo. Non stupisce, quindi, che la Financial Conduct Autorithy si attrezzi per attrarre quotazioni e investitori, specie nel comparto delle pmi tecno-digitali, prevedendo doppie classi di azioni con prevalenza di quelle assegnate al management per fronteggiare eventuali scalate ostili e riducendo il flottante minimo dal 25 al 10%. Così come è ovvio invocare norme eguali e contrarie a livello nazionale, dove peraltro l’ex-Aim milanese, ora parte della federazione Euronext Growth, nel solo 2021 esprime circa il 30% della totalità del circuito con una capitalizzazione di 11 miliardi e 174 società quotate.
Dietro a questo beauty contest aleggia però uno spettro che l’entusiasmo competitivo rischia di sminuire: l’eccesso di (de)regolamentazione. Tradizionalmente, i mercati finanziari anglosassoni, specie quello inglese, s’ispirano ad una corrività maggiore di quella che impera nel continente, dove il peso regolamentare soffre di un’elefantiasi spesso inconcludente se non dannosa (come testimoniano sia l’ipertrofia di Mifid2 sia l’evidente inefficienza della disciplina Priips). Il problema è antico: regolare poco per attrarre di più o regolare molto per proteggere gli investitori? Questo manicheismo di approccio, che incarna i due soli estremi dell’inclinazione regolamentare senza mai considerare la ricerca di un reale equilibrio, affonda le sue radici in ragioni storiche e politiche. È indiscutibile che ogni vera innovazione, in finanza come altrove, transiti attraverso una fase di assenza di regole ed è spesso e proprio il vuoto normativo a stimolare la creatività (in ordine di tempo, derivati, subprime e criptovalute insegnano). Ovvio è il rischio, non di rado concretizzatosi, che le innovazioni incontrollate provochino bolle e catastrofi finanziarie, determinando i regolatori ad alzare pesantemente il tiro con nuovi impianti disciplinari dalla faccia feroce e dalla stazza ponderosa.
I quali però non risolvono il problema, così come il Sarbanes Oxley Act non prevenne il flagello dei subprime. Lo conferma la c.d. product intervention, uno dei labari di Mifid2, che conferisce alle autorità di controllo poteri di blocco su attività o prodotti nel momento in cui le regole risultassero inidonee a preservare mercato e investitori: confessione aperta di un fallimento normativo e costante spada di Damocle sui mercati. Regolare poco o niente rende il mercato terra inospitale e infida, regolare troppo lo imbriglia e non protegge chi vi investa. In luogo di gareggiare a chi fa più e chi meno, sarebbe il momento di ripensare la regolamentazione finanziaria secondo l’aurea teoria della virtù mediana.
Cioè: smagrire e razionalizzare la disciplina sovrabbondante, eliminando soverchi oneri informativi che dissuadono gli emittenti e sfuggono alla comprensione degli investitori, e creare soluzioni di facile lettura e orientamento sui rischi del prodotto, anche qui senza esagerare (come accaduto per gli scenari probabilistici basati su previsioni quantitative, che le Sezioni Unite della Cassazione con la nota sentenza 8770/2020 hanno incluso nell’oggetto del contratto derivativo, quando gli stessi non sono che un efficace strumento informativo). Al tempo stesso serve maggior rapidità nella risposta ai fenomeni innovativi, che non vanno osteggiati ma neppure lasciati a lungo in aree law-free o disciplinate blandamente e con irrazionalità sistemica (è il caso delle criptovalute, per ora regolate solo da una smorta disciplina antiriciclaggio incapace di padroneggiare la complessità dello strumento). Nessuna gara al ribasso o al rialzo legislativo è mai redditizia per un sistema.