Shadow banking, il mirino va spostato sulla qualità degli attivi
Nel gergo atecnico shadow banking (sistema bancario ombra) descrive finanziamenti erogati da soggetti non autorizzati, abusivismi spesso connessi a pratiche di usura e riciclaggio. Nella tassonomia economico-giuridica invece il termine (coniato dall’economista americano Paul A. McCulley) indica quei collettori di raccolta e impiego – quali fondi d’investimento, fondi pensione, assicurazioni, veicoli strutturati, imprese finanziarie – sottoposti a una disciplina diversa da quella applicabile alle banche, soprattutto in termini di requisiti di capitale e stabilità. Di recente, specie dopo il crollo di Archegos che travolse il Credit Suisse, il tema suscita un forte allarme e una risposta riduttiva.
In Europa il mercato ombra raggiunge il 25% del volume di crediti all’economia, percentuale che sale al 60% negli Usa. D’istinto si rievocano gli anni bui della crisi, i micidiali subprime che squassarono il mercato statunitense ripercuotendosi in Europa, dove molte banche (pochissimo le italiane) assorbirono quantità enormi di credito tossico. Ora si teme che la stessa azzardata operatività possa riproporsi per tre cause strutturali e un fattore contingente. Prima causa: il prestatore non bancario opera a leva, indebitandosi verso le banche per investire altrove. Seconda: l’indebitamento è a breve per fruire delle variazioni favorevoli dei tassi, mentre l’investimento è a più lungo termine. Terza causa: l’investimento ha luogo spesso in titoli o verso prenditori illiquidi. Con tassi rasoterra il congegno funziona: il prestatore non bancario raccoglie a bassissimo costo e lucra sulla maggior resa di titoli o prestiti illiquidi in cui impiega la raccolta.
Nello scenario attuale (fattore contingente), con tassi esplosi in un anno, il giocattolo può rompersi. Lo sfasamento temporale fra indebitamento a breve e investimento a lungo produce infatti una drastica riduzione dei margini perché il costo del primo cresce molto più rapidamente della resa del secondo. Il problema rimbalza sulla tenuta del sistema bancario perché l’intermediario alternativo potrebbe trovarsi talmente esposto verso i suoi debitori da non poter ripianare il debito verso la banca prestatrice. Oggi l’80% della raccolta bancaria e il 90% delle esposizioni attive si concentra nelle prime 20 banche europee e quelle verso le banche ombra sfiora i 41 mila miliardi: il problema c’è.
Accostare lo shadow banking al flagello dei subprime non è però la corretta chiave di lettura. Per due ragioni. I subprime erano crediti intrinsecamente tossici, l’abnorme rischio di insolvenza del prenditore finale fu ampiamente, se non volutamente, sottovalutato e il collocamento delle loro cartolarizzazioni altrettanto sciagurato.
La seconda ragione è che non è affatto vero che il «bancario umbratile» sia fuori controllo. La più parte degli operatori finanziari alternativi (assicurazioni e fondi pensione per primi) sconta una stretta regolamentazione con requisiti prudenziali analoghi, anche se non identici, a quelli bancari. Ed è questo il principio informatore del regolamento europeo n. 2279 in vigore dal 13 dicembre scorso, che seleziona gli intermediari non bancari da tenere sottocchio (quelli non sottoposti a vigilanza: realtà per lo più minimali, fondi monetari più soggetti al mismatching temporale in caso di eccessi di riscatto, Fia monetari operanti a leva e con statuto che non vieti loro di farsi prestatori). La restrizione dello spettro applicativo ridimensiona significativamente il problema.
La cui soluzione non è certo eliminare lo shadow banking, che resta una valida alternativa al credito tradizionale, ma contenerne il rischio sistemico in termini di qualità degli attivi delle banche ombra, del rischio cioè cui esse sono esposte verso i loro debitori. Il sistema tende a vedere solo l’esposizione delle banche di prima istanza, mentre servirebbe contenere il rischio dello shadow banking prevenendo la formazione di attivi deteriorabili. È lì che va spostato
Emilio Girino
Thomson Reuters©
Stand-out Lawyer 2023