Se la Brexit diventa un incubo
Brexit means Brexit era il motto degli ultras secessionisti d’oltremanica. Get Brexit done quello del premier dimissionario. Il clangore bellico ne ha attenuato l’eco, ma fra aprile e giugno l’Office for national statistics (Ons), la Bank of England (Boe) e reputate istituti di sondaggio hanno diffuso dati inquietanti sui postumi della sbornia divorzista inglese. In disparte aumenti energetici, rincari e inflazione galoppante (mal comune ai Paesi Ue, pur se esasperato in Uk dove la previsione autunnale Boe preconizza una progressione inflattiva del 10%, la più corsaiola del G7), il contenuto tasso di disoccupazione (3,8%) nasconde numerose assunzioni a ore zero o prive di tutele, l’indice di fiducia dei consumatori crolla del 40%, un quarto della popolazione salta un pasto al giorno o ricorre agli enti benefici (food bank) e due terzi rinunciano al riscaldamento.
Le misure di contrasto all’inflazione, come l’aumento dei tassi e l’incremento della pressione fiscale, additano un futuro a tinte fosche: la peggiore performance del G20 secondo l’Ocse, uno scenario apocalittico a sentire il governatore della banca centrale, inconcepibile per una nazione come il Regno Unito eppure terribilmente reale se è vero, come lo è, che gli speculatori da un paio di mesi hanno sferrato un attacco alla sterlina accelerandone la caduta sul dollaro (da 1,25 a 1,20 solo fra l’8 giugno e l’8 luglio).
Sulle prime alcuni ministri hanno minimizzato, incolpando pandemia, caro energia e guerra, ma il conto salato di Brexit sta crescendo e di recente lo ha ammesso anche Rishi Sunak, ex cancelliere dello Scacchiere. La fuga dall’Unione mina l’efficienza economica dell’isola. Solo per citare le prove più liquide: endemica carenza di personale per mancato rientro di lavoratori Ue rimpatriati durante il Covid; regresso doganale che compromette le esportazioni di due terzi delle imprese britanniche; incremento dei costi di import grazie all’indebolimento della sterlina negli acquisti di cibo, manufatti e semilavorati, da regolarsi in dollari verso i Paesi extra-Ue con cui Londra ha avviato accordi di scambio per bilanciare la perdita del mercato unico.
Infausto ma prevedibile, tale esito stimola qualche riflessione e impartisce una dura lezione: la metamorfosi del miope sogno isolazionista in un incubo anacronistico.
In un mondo a torto o a ragione globalizzato, è impensabile, prima che ingenuo, sfilarsi da organizzazioni sovranazionali in grado di assicurare libera condivisione di spazi commerciali, sostegno in fasi di crisi, maggior spessore istituzionale e politico verso le altre superpotenze. L’anteposizione d’interessi personalistici ai reali bisogni di un Paese non può che causare piaghe esiziali in intere società ed economie. Purtroppo, questa infelice scelta individualistica, questa personalizzazione del messaggio politico, che si credeva relegata solo a Paesi sensibili al fascino dell’autocrate, è alla base dei sempre più diffusi movimenti sovranisti e centrifughi che lentamente erodono le sponde occidentali, incluse le più insospettabili. È la diretta conseguenza dell’incessante concentrazione di ricchezza e del progressivo ma inesorabile impoverimento dei ceti bassi, medi e finanche medio-alti: fenomeno tollerato, trascurato, quando non incoraggiato in Occidente e che, a sua volta, genera vasti impeti di ribellione, inclini a cedere alla tentazione di una riconquista di potere attraverso il recupero di un’autonomia decisionale del tutto sganciata dal contesto della realtà geopolitica ed economica globale. La scelta inglese pare irreversibile, la soluzione richiederebbe invece il ritorno del figliuol prodigo. Realistico immaginarlo? Forse no, ma sarebbe la decisione più intelligente e coraggiosa che il Regno Unito potrebbe assumere, preservando se stesso e impartendo una lezione alle derive autarchiche occidentali. I tempi del Boston Tea Party sono lontani, quelli delle risse pescherecce fra Dover e Calais troppo, troppo vicini. E preoccupanti.