Se il giudice è un algoritmo la giustizia diventa pietrificata

Affascina e inquieta, disturba e attrae. Un giudice algoritmico che all’istante sputa sentenze ineccepibili? Da un pezzo non ci sarebbe nessun giudice se quello algoritmico fosse infallibile. Peccato che nessuno, men che meno una macchina, sia infallibile (le inefficienze dei sistemi informatici sono realtà tristemente note e seccanti). Filosoficamente, sociologicamente e giuridicamente il discorso sarebbe amplissimo, ma qui vorrei solo dare qualche empirica dimostrazione della sua impraticabilità, calando il tutto nella quotidiana realtà processuale.

Sarei curioso di assistere a un’udienza cibernetica. Sarebbero cibernetici anche avvocati, parti, testimoni, consulenti tecnici di parte e d’ufficio? Come si celebrerebbe questa udienza? Ma immaginiamo che tutto si svolga come oggi, con la sola variante di parlare da umani a una macchina, invece che a un altro umano, senza neppure il privilegio di scorgerne le preziose variazioni di voce, parole, sguardi, posture. Arriva il teste subornato (manipolato da una delle parti), ma è un abilissimo istrione: la macchina avrebbe la finezza di sbugiardarlo? Un confronto fra testi: a quale dei due presterebbe fede il giudice cibernetico? E fra le tesi di parte l’algoritmo quale sceglierebbe? Dovrebbe discernere fra le tesi prevalenti nei precedenti e quindi opterebbe per la maggioritaria.

Eccoci all’ansiogeno finale: la sentenza. Un computer, per quanto intelligente, non può che imparare da ciò che gli si insegna. Se in un dato arco temporale certe pronunce affermino in maggioranza una tesi (abnorme) e molte meno l’opposta (razionale), a chi l’algor-giudice crederà? Si potrebbe immaginare che l’automa sia ammaestrato anche dalla dottrina, da giuristi umani che, fuori dal processo, esprimono opinioni diverse e, nuovamente, a chi crederà la macchina giudicante se non alla maggioranza di opinioni, senza saper distinguere fra quella qualitativamente più elevata o quella più numerosamente asserita? Che accadrebbe se più numerosi studiosi fossero assoldati dalla parte più forte per aumentare il peso specifico di una soluzione, quando invece il vero genio si può scorgere solo nel singolo interprete che colga ciò che la moltitudine non comprende. È così che tesi apparentemente prevalenti vengono poi scalzate da giudici talentuosi e sensibili. Giudizi di secondo e terzo grado (appello e cassazione) avrebbero ancora un senso? Alzando il tasso d’azzardo, che fare nel caso di un sistema giudicante vittima di hackering?

Il vero, drammatico rischio insito in macchine che non pensano ma calcolano è che tanto potrebbe condurre alla «pietrificazione» del diritto. Un irrigidimento insensibile alla variazione di pensiero, il brutale asfalto della mutazione costante e indispensabile nella lettura delle norme. Ogni sensibilità umana che, pur nel suo errare, alla fine trova un’evoluzione, sarebbe definitivamente annullata.

E se mai i giudici umani sparissero, la giurisprudenza cesserebbe di esistere. Uti lingua nuncupassit, ita ius esto recitavano le dodici tavole romane, cioè: se hai promesso devi mantenere. Poi i pretori dell’Urbe si convinsero che giurare con un coltello alla gola non era giurare in libertà, donde la facoltà di annullamento del contratto per violenza che ritroviamo nel codice civile. Per abitudine professionale, ho pensato solo al diritto degli affari. Ma in materia di famiglia o di crimini? Turbato dai dilemmi ho interrogato ChatGpt ed ecco il responso: «il processo decisionale giuridico coinvolge spesso elementi complessi che vanno oltre la mera analisi dei dati. Comprende anche valutazioni etiche, considerazioni morali e contesti specifici di casi individuali. La legge è soggetta a interpretazioni e applicazioni che richiedono comprensione umana, empatia e discernimento». Risposta intelligentissima ma sarebbe stata la stessa se il suo addestratore, magari sensibile a istanze politiche, l’avesse diversamente indottrinata?

Thomson Reuters©
Stand-out Lawyer 2023

Scarica articolo in PDF

Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.