Paradisi, errori e apocalissi nella guerra sull’euro digitale
Da novembre si sperimenta, due anni dopo la pagella, il più divisivo parto Bce: l’euro digitale. Teoricamente la cyber-moneta si porrebbe in competizione diretta con le criptovalute (teoricamente, perché la tecnologia sperimentale si ispira al modello del registro distribuito ma non lo replica): forse per colmare il ritardo di Stati e regolatori che sin qui hanno sottovalutato il fenomeno? Primo errore: le criptovalute, ad oggi, non sono impiegate, se non marginalmente, per fini solutori e la loro estrema volatilità ne denuda la sostanza di prodotti finanziari (a poco a poco la giurisprudenza se ne sta accorgendo, quando lo faranno i legislatori sarà già tardi).
Forte è il timore che i pagamenti siano risucchiati dalle piattaforme digitali (eppure la clamorosa débacle della Libra di Facebook risale a quasi due anni fa). Quale stablecoin garantita da un’autorità centrale e fuori dall’ottovolante speculativo, il digital euro è una fiat currency che osteggerà le alternative anarchiche. Altro errore: chi investe in cripto lo farà pure in presenza di una valuta digitale ufficiale. Anzi, l’antagonismo si acuirà con esiti inversi: ridotte le libertà, gli umani filano altrove.
Senza l’euro digitale l’Unione Monetaria sarebbe imperfetta; una sola banca e una sola valuta digitale sgomineranno evasione, elusione e riciclaggio; l’economia digitalizzata ne beneficerà; il sistema dei pagamenti sarà inattaccabile – tuonano i fautori. Replicano i detrattori: terrorizza il solo pensiero di monopolio dei depositi, disintermediazione dei pagamenti, dissolvenza della concorrenza bancaria, fors’anche sparizione delle banche, asservimento dei correntisti alle politiche espansive o restrittive della Bce, concentrazione del possesso dei dati. Pari al mitologico conflitto troiano, lo scontro origina dalla scelta della Bce di consentire a ogni cittadino europeo, entro il cap iniziale di 3.000 euro, l’apertura di depositi presso se stessa.
Direi ai detrattori: la Bce non può mirare alla disintegrazione del sistema bancario, perché tanto azzererebbe un roccioso caposaldo unionista, la concorrenza. L’assolutismo cyber-monetario porterebbe all’accentramento e alla «politicizzazione» delle erogazioni che utenti e mercati rigetterebbero. Gli utenti disperdono allegramente i loro dati ovunque ma ne scriverò fra un secondo. Ai sostenitori: all’euro manca l’inattuato terzo pilastro del fondo interbancario Ue a tutela dei depositi e l’annientamento dello spread (Usa: 50 Stati e un solo tasso; Ue: 27 Paesi e 27 tassi); evasione e riciclaggio azzerati appartengono al sogno paneuropeo (Singapore, e non solo, parrebbe il nuovo hub del money laundering); l’economia è già digitalizzata e nessun apparato informatico è immune al sabotaggio. L’ansiogeno e prematuro dibattito difetta di quattro spunti di riflessione sul lungo orizzonte.
Primo: digital divide. Le popolazioni europee sempre più incanutite non sono né lo saranno fra due anni, pronte alla sparizione del contante, in buona misura non ne sarebbero tecnicamente capaci e ciò bandirebbe un’enorme quota di spesa (ad oggi, meno del 15% degli italiani usa una carta prepagata).
Secondo: privacy. In Europa ne siamo indiscutibili campioni e, scelte individuali a parte, esiste un’oasi di riservatezza in cui ogni individuo libero ha diritto di comprare ciò che vuole fuori da sguardi altrui.
Terzo spunto: la verde aporìa. Le indagini di tre eminenti scienziati Onu del 24 ottobre e di ricercatori inglesi rivelano che il solo il bitcoin ha bruciato (2020-2021) 173,42 TWh, oltre la metà dei consumi italiani e il processo di estrazione (mining) ha consumato oltre 38 milioni di tonnellate di carbone. Nel solo Regno Unito, se ciascuno spedisse una mail in meno al giorno, 16.000 tonnellate di Co2 svanirebbero.
Quarto e ultimo spunto: quando gli Stati si muovono, sanno stilare un bilancio reale di pro e contro, hanno una visione strategica veramente globale? Parrebbe di no, purtroppo.
Emilio Girino
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