La crisi cinese insegna che la fretta non crea valore

L’affaire Evergrande ci illuminerà? Una crisi non passeggera attraversa il dragone dallo sbuffo spezzato: sparita la doppia cifra del pil, i giganti dell’infinito mattone crollano come argilla annacquata, il 21% dei giovani è disoccupato (il governo non diramerà i prossimi bollettini), l’ascesa tecnologica dipende ancora dall’Occidente. La crisi della sino-grandeur non è un portato recente, risale ad almeno dieci anni fa. Fra il 2013 e il 2015 (MF-Milano Finanza 27.7.2013 e 5.7.2015) ne analizzai le fasi acute. Nel 2013 le esportazioni cinesi crollarono del 3% mentre la domanda interna crebbe di appena lo 0,3%, credito bancario e connesso indebitamento sfondarono il 200% del pil, speculazione finanziaria selvaggia sovralimentata da uno sfuggente ed imponente shadow banking. Nel 2015 fu la volta della bolla azionaria rispetto ad un indice cresciuto del 150%. All’epoca banca centrale e vigilanza finanziaria non si risparmiarono: ordine ai fondi pensione di comprare azioni, 42 miliardi di dollari stanziati per riattizzare il mercato, divieto di vendere per un semestre ai detentori di almeno il 5% di una quotata.

Oggi va peggio e il preconizzato trasferimento della crisi dalla finanza all’economia è realtà. Alla radice la smisurata crescita del mercato immobiliare favorita da potenti agevolazioni finanziarie e fiscali (tassi dal 4 all’1% e un fondo di stimolo all’investimento immobiliare di circa 500 miliardi di euro, il 15% del pil). Il mercato del mattone cinese crebbe a dismisura come in parallelo crebbe l’indebitamento delle immobiliari, speculazioni a breve impazzarono gonfiando i prezzi, il governo tamponò con nuove restrizioni. In un contesto di mercato avverso, con un surplus immobiliare non collocabile, oggi a crescere è l’insolvenza (fallita in Cina nel 2021, Evergrande accede ad un Chapter 15 a New York, cerca di collocare un bond che il mercato disdegna, mentre il suo fondatore Xu Jiayin è in stato di fermo in una località ignota). Il business immobiliare cinese vale un quarto del pil, ora le vendite sono inferiori di un terzo a quelle del 2019 e le nuove costruzioni si riducono del 60%.

Da qui consumi interni che scendono vorticosamente, ovvio contraccolpo sull’occupazione, oltre a un pesante calo delle esportazioni, sulle quali la Cina aveva giocato la sua carta vincente e che tale è stata a lungo ma che oggi più non è, in conseguenza di scelte di ingerenza statalista, avvertite ormai come troppo pesanti e mal digerite da imprese e investitori, e della guerra commerciale innescata da tempo con gli Usa. In Cina non c’è inflazione ma deflazione e se, oltre certi limiti, la prima è un guaio, la seconda è una disgrazia eguale e contraria: è una deflazione causata non dal crollo dei costi ma dal calo di domanda, quindi latrice di recessione.
Paradossalmente il modello socio-capitalista soffre delle stesse smanie del capitalismo moderno, perfetta antitesi dell’economia sociale di mercato, che a est come a ovest s’ammala del morbo chiamato fretta. Che un’economia guidata e marcata stretta da uno stato monopartitico sia ceduta a questa logica, al mito di sviluppo fulmineo ma infinito, induce ad una seria riflessione.

Consiglierei a tutte le grandi, medie e piccole imprese ancora abbacinate da quella leggenda di attrezzarsi con adeguati strumenti contrattuali: investimenti graduali e ponderati, stock option a lungo termine, fidelizzazione dei dipendenti, il tutto nella coscienza che il valore di un’impresa si fabbrica nel tempo con pazienza, fatica, costanza, fedeltà, accumulazione.
La sostenibilità è il nuovo e saggio imperativo. Spesso purtroppo frainteso e tradotto in azioni più formali che sostanziali. Ma il presupposto di ogni sostenibilità imprenditoriale è che l’impresa regga e acquisti valore nel lungo termine: promuovere e affermare la sostenibilità non è affare gestibile da un’impresa che non sappia creare valore per se stessa. E il valore si crea con tutto tranne che con la fretta.

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Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.