La Cassazione risolve la querelle sui presunti derivati impliciti

Il 23 febbraio scorso la sentenza 5.657 delle Sezioni Unite della Cassazione chiude la disputa sui derivati cosiddetti impliciti. Avendo contribuito a quel dibattito sia in veste professionale che in sede scientifica (I derivati «impliciti»: virtù e vizi della scomposizione, in Riv. Dir. Banc., 2016), non posso che plaudire a questa pronuncia, robusta e brillante.

Tutto nacque circa un decennio fa dallo scoppio di contenziosi seriali tesi a invalidare clausole di indicizzazione di mutui e leasing a tassi di interesse e di cambio su valute estere. Scopo delle pattuizioni era di permettere al cliente di indebitarsi in valute che, in quei contesti temporali, scontavano un interesse decisamente minore dell’euro. Di conseguenza sul cliente beneficiario di un interesse minore gravava il rischio di una sfavorevole variazione del tasso di cambio della valuta, così come il vantaggio di fluttuazioni inverse. In caso di variazioni sfavorevoli il cliente ne versa separatamente il controvalore alla banca, ma riceve da questa l’equivalente nel caso opposto: invece di indebitarsi nella valuta x, convertirla in euro e a ogni scadenza riconvertirla nella valuta x per saldare rata o canone, registrando un maggior costo in caso di rialzo del cambio e un risparmio in caso di ribasso, l’operazione produce lo stesso effetto regolando in euro gli scarti di valore.
Tutto filò liscio per molto tempo, sino alla crisi dell’euro.

Crollati i cambi, prima alcuni poi molti clienti s’ingegnarono di scovare nella clausola un derivato implicito, un currency swap occulto: avendo l’intermediario venduto, insieme con un prodotto creditizio, anche un derivato senza rispettare le regole del Testo Unico della Finanza (Tuf), la pretesa giudiziaria era di sentir decretare la nullità della clausola. Tesi che sulle prime prese piede per effetto di un abbaglio morfologico: le caratteristiche strutturali di un derivato, ossia astrazione pura e autonomia causale (sgancio del derivato dall’underlying instrument incluso in un contratto e sopravvivenza del primo alla cessazione del secondo), riferimento a un capitale nozionale (nella specie, anzi, reale ed erogato), uscita solo previo versamento del mark-to-market, erano del tutto assenti nella clausola.

La tesi scricchiolò sotto il martello di qualche acuto magistrato e l’attacco si spostò sulla presunta indeterminatezza del pattuito, (mal) costruita su cavilli lessicali e speculazioni ragionieristiche ben più che discutibili. Quando pure quest’arma si spuntò, s’invocò l’immeritevolezza del contratto atipico (articolo 1322 del Codice Civile), fondata sulla presunta iniquità e non convenienza dell’operazione. La Cassazione (4659 e 26538 del 2021) decretò che tali clausole non sono derivati ma semplici metodi di adeguamento di valore. Un’ordinanza interlocutoria del 2022 riportò il tutto davanti alle Sezioni Unite sostenendo un contrasto interpretativo (invero inesistente, come la sentenza non mancherà di notare). Il supremo consesso oggi chiude la contesa, ribadendo a chiare lettere la natura non derivativa delle clausole rischio cambio, escludendo che le stesse mutino la causa del contratto di credito, distinguendo nitidamente fra differenzialità finanziaria e differenzialità derivativa e liquidando severamente la tesi dell’immeritevolezza, strumento estremo di cui il giudice può avvalersi solo per disinnescare contratti viziati da un abnorme squilibrio prestazionale, non rintracciabile in clausole di adeguamento di valore.

Conclusione? La offre la stessa Corte evocando, con ricercata ironia, il letto di Procuste e la porta di Isthar, il mitologico brigante psicotico che stirava o amputava le sue vittime per adattarle alla taglia d’un letto e la maestosa porta babilonese che conduceva ai luoghi sacri. Per dire, in un caso, che il diritto contrattuale non impone affatto una perfetta parità di condizioni e vantaggi e, nell’altro, che la giustizia non abita nei templi della magia. Et de hoc satis, tradotto: basta (alle fantasiose invenzioni, precisa la Corte).

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Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.