Guerra ed effetti economici indotti: la Ue deve cambiare registro

Da sempre la fretta è cattiva consigliera. In tempi di guerra è però inevitabile. A bocce di certo non ferme, due schieramenti di pensiero vanno formandosi: su una sponda, chi incolpa la globalizzazione delle ricadute economiche del conflitto, sull’altra chi la benedice poiché senza di essa l’Occidente non avrebbe potuto infliggere sanzioni, unica arma «pulita» per evitare la detonazione di uno scontro planetario. Esercizio affascinante ma oggi inutile, perché le bombe cadono e uccidono oggi. Semmai era prima che la fretta non doveva dispiegarsi nella forsennata corsa delocalizzatrice e nel parallelo disarmo energetico e produttivo a ovest, cullato dall’illusione che il libero commercio internazionale avrebbe giovato a tutti: teoria astratta e autoelidente, specie se sganciata dalla valutazione delle qualità civili delle controparti.

Ora si rischia l’ennesima sottovalutazione di un problema ben più vasto. Il temuto e non improbabile default russo, dopo i downgrade a raffica delle ultime settimane, sarebbe di per sé un colpo assorbibile dalla finanza occidentale (si parla di solo 700 miliardi di esposizione, di cui una minor parte concentrata in Europa e pochissimo in Italia). Ma il fallimento di una potenza con un debito pubblico pari al 20% del pil avrebbe strascichi ben peggiori per tutti. A cominciare dall’esplosione dell’indebitamento privato (+46% già dal 2018 in poi) e dalla contrazione del potere di acquisto di un paese che viaggia ad un’inflazione oltre il 9%, ha fra le mani una moneta iper-svalutata con tassi al 20%, importa dall’Italia 7,7 miliardi di euro (macchinari e abbigliamento in testa) mentre ve ne esporta 14 di cui il 60% in materie estratte, gas per primo (dal 2010 in poi l’importazione di gas russo è più che raddoppiata e, a rubinetto chiuso, pur con ogni razionamento e temporaneo ritorno alla vituperata carbonizzazione, mancherebbero 15 miliardi di mc nel prossimo autunno).

Che dire poi dell’ineluttabile fuga di capitali e aziende (le italiane sono più di 660 secondo l’Osservatorio degli Esteri) che il default innescherebbe a catena? E ancora: nel timore di nazionalizzazioni, l’uscita dal mercato russo di colossi bancari e la liquidazione a marce forzate di titoli e derivati non potrebbe non ripercuotersi sui circuiti finanziari occidentali. Sono verosimilmente questi gli effetti indiretti, poco misurabili ma sorprendenti, sui quali a metà marzo Andrea Enria, capo della Vigilanza Bce, ha invitato alla massima prudenza e attenzione.
Analoga sottovalutazione si registra sul versante ucraino, dove si crede che un aiuto della Ue alla ricostruzione (quando, come, quanto?) sarà sufficiente a far risollevare il paese ma dove gli effetti indotti del confitto si fanno sentire forti, chiari, devastanti. Dall’Ucraina importiamo cablaggi, barre e billette di titanio, bramme in ferro, il che paralizza automotive e siderurgia, con migliaia di posti di lavoro già a rischio. Qui e ora. Forse la guerra cesserà per insostenibilità economica da parte russa. Ma questa resta una speranza, mentre sul versante del fare, nel breve, occorre incrementare il soccorso immediato al paese invaso.

Lungo un più ampio orizzonte, i progetti di investimenti in difesa e sanità comuni potrebbero finalmente spianare la via a quello che è l’unico futuro possibile. Un futuro bisognoso di sicurezza e di stimoli, dove il debito pubblico è inevitabilmente destinato a crescere, come profetizzò Draghi uscendo dalla Bce. Serve un totale ripensamento dei modelli economici, sociali e di finanza pubblica sui quali l’Europa si è adagiata. E serve, qui sì, farlo in fretta: se la crisi dell’euro ha insegnato poco e la pandemia molto, questa immane tragedia umana ed economica deve portare, ora o mai più, alla riscrittura dei parametri monetari, al graduale debito comune e al pensionamento dei sogni di frugalità.
Un lusso irrealistico che nessuno può più permettersi a fronte di un mondo che cambia. Spesso in peggio e senza preavviso.

Scarica articolo in PDF

Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.