Gruppi d’acquisto contro l’inflazione: come strutturarli
Invocata nel pesto buio della crisi dell’euro per ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (senza troppo curarsi del deflatore che misura la crescita reale rispetto a quella nominale), oggi l’inflazione corre e spaventa. Corre in Italia, in Europa, negli Usa, ovunque. Il ribaltamento delle dinamiche di approvvigionamento di materie prime ed energia, innescato dalla pandemia e aggravato dal conflitto in corso, incide sui costi di produzione, sul potere d’acquisto e sui consumi, volti inevitabilmente a contrarsi, additando imminenti scenari di choc multipli: perverse rincorse fra prezzi e salari, stagnazione, pil mondiali in caduta libera.
A fine gennaio Francesco Mutti, presidente di Centromarca, nel definire l’ondata inflazionistica come vera emergenza industriale, tale da compromettere la stessa sopravvivenza della filiera agricolo-industriale-distributiva, lancia un’idea: creare consorzi d’acquisto nazionali oppure europei sui quali far scattare una garanzia pubblica su variazioni eccessive di prezzo. Cumulando le domande individuali e aumentando la stazza di quella aggregata, cresce il potere negoziale e migliorano le possibilità di ribasso. Vale per le materie prime come per l’energia, i noli, i trasporti. Non sembra abbia avuto seguito, invece è un progetto da coltivare, cercando, qui, di ipotizzarne qualche tratto operativo.
Le soluzioni tecnico-legali sono molteplici: dal tradizionale consorzio alla joint-venture contrattuale (senza creazione di veicoli ad hoc), dall’accordo plurilaterale per uno scopo comune (esiste nel codice civile dal 1942) alla snella società di servizi. L’architettura sia la più leggera possibile, aperta a adesioni progressive, massimamente improntata al principio di reciproco sostegno, senza però entrare nella complessa realtà cooperativa. Il modello s’addice alle piccole medie imprese, ma è necessario che almeno alcuni grandi player si aggreghino, divenendo capifila e gestendo le negoziazioni. Nello stesso contesto servirebbero accordi di cash pooling e di calibrato finanziamento infragruppo, dimodoché i capifila possano gestire gli acquisti redistribuendo i benefici in termini rigorosamente proporzionali (all’incirca come accade nella gestione degli ordini finanziari), occorrendo anche in termini di anticipazioni dei costi di acquisto in favore degli anelli più deboli del circuito. Indispensabili altresì sono accordi tesi a potenziare ed ergonomizzare la logistica, riducendone i costi. In parallelo, le filiere si riorganizzino al meglio, optando, se delocalizzate e se possibile, per il reshoring e in ogni caso per l’accorciamento delle catene di approvvigionamento. Tutto ciò implica un delicato, puntiglioso e alchemico costrutto contrattuale.
Mutti ipotizza una sorta di garanzia pubblica in caso di eccessivo rialzo di prezzi. Sarebbe un tocco magico, poco gradito a Bruxelles. Al momento ci accontenteremmo di meno: basterebbe che gli Antitrust esentassero senza limiti, sino a cessazione della crisi, questo tipo di accordi, escludendoli dalle intese vietate (dato che si parlerebbe di volumi ingenti) ma nel contempo vigilassero sulla corretta condotta dei capifila, che l’Erario ne defiscalizzasse totalmente stipulazione ed esecuzione, favorendo il cash pooling senza riserve e rifacendosi sui sovraprofitti del settore energetico in maniera equa, precisa e mirata (non come avvenne con la sciagurata Robin Tax, che andò a ferire anche piccoli distributori in nome di esigenze di bilancio). Graditissimi i rimpatri a costo fiscale zero.
In tempi di crisi finanziaria la solidarietà inter-imprenditoriale è altamente opportuna anche senza benedizioni statali, in tempi di crisi industriale è qualcosa di indispensabile e gli Stati devono metterci del loro. Ma le imprese inizino ad attivarsi e a gettare le basi delle alleanze, anche in forma di memorandum preliminari. Ci attende un inverno difficile, un rude hiver per dirla con Queneau. All’autunno mancano tre mesi. La parola d’ordine è: muoversi. Emilio Girino