Greenwashing, rischio bolla per gestori e consulenti
Era attesa, è arrivata ma non ha risolto granché. È la definizione di greenwashing contenuta nel Progress Report congiunto di Esma, Eiopa, Eba del 31 maggio scorso (per il finale ci vorrà un altro anno): l’imbiancatura verde comprende affermazioni, dichiarazioni, azioni o comunicazioni che non rispecchiano chiaramente e correttamente il profilo di sostenibilità sottostante un ente, un prodotto o un servizio finanziario. Nulla di nuovo: far greenwashing vuol dire spacciare per verde ciò che verde non è. Definizione a parte, l’analisi delle autorità di vigilanza dei mercati finanziari, bancari e assicurativi europei enumera i versanti di rischio che coinvolgono l’intera filiera: dagli emittenti, seducibili dalla lusinga del cherry picking (comunicare solo i pro trascurando i contro), ai gestori di fondi e ai benchmark, disarmati in fase di verifica o confronto fra detto e fatto degli emittenti, ai consulenti finanziari, chiamati a valutazioni personalizzate implicanti alfabetizzazione verde loro e della loro clientela.
Sta di fatto che in mano a gestori e consulenti resta un cerino esplosivo, già innescato nella seconda metà dello scorso anno (si veda l’articolo I fattori Esg irrompono sulle pagine del questionario Mifid su MF-Milano Finanza dell’8 ottobre 2022): cosa accadrà se in un fondo, in una sicav o in un portafoglio gestito o amministrato finiranno prodotti green che poi non si riveleranno tali? Comprensibilmente rabbrividiti dal passaggio del report in cui si dà rilievo anche al greenwashing non intenzionale, gli interessati replicano che nessuno potrà sobbarcarsi la colpa delle errate o opache affermazioni degli emittenti in cui essi abbiano investito o consigliato ai clienti di investire. Nondimeno, escludere a priori una responsabilità o corresponsabilità di gestori e consulenti per non aver correttamente valutato le esternazioni verdi degli emittenti non è un passo semplice, né coerente con le regole di adeguatezza imposte da Mifid2. Così come complesso e incoerente sarebbe addossare agli operatori finanziari oneri di due diligence obiettivamente inesigibili.
Il passaggio al verde -transizione o business lo si voglia chiamare- oltre ad una bolla economica di proporzioni enormi e devastanti conseguenze, potrebbe generare una parallela macro-crisi sulla sponda finanziaria. Ancora nulla di nuovo? Non proprio, anzi per niente.
Le bolle finanziarie dell’ultimo ventennio, dalla new economy di inizio secolo alle più recenti disfatte borsistiche di reti sociali e criptovalute nascevano e nascono da scelte frettolose, imprudenti e superficiali, ma pur sempre da scelte. In materia verde, invece, si attraversa un canale obbligato. La direttiva sulla sostenibilità aziendale (Csdd) imporrà alle imprese di definire e attuare un piano di transizione compatibile con l’obiettivo di contenere il surriscaldamento globale sotto 1,5 gradi. Non varrà solo per le quotate, ma anche per le pmi con oltre 500 dipendenti e 150 milioni di fatturato o non più di 250 addetti ma con ricavi generati per il 50% da tessile-moda, agroalimentare o estrattivo-minerario. Una vastissima schiera di asset dai quali, scelte del cliente a parte, nessun gestore o consulente potrà prescindere se non striminzendo pesantemente la gamma d’offerta. Non si tratterà più di investire in modo razionale e lungimirante, ma di non poter non investire in titoli vincolati al verde. Lasciare a gestori e consulenti la scelta tra farsi risucchiare da Cariddi (norme sganciate dalla realtà) o dilaniare da Scilla (clienti perdenti, magari organizzati in class action) non sarebbe una soluzione perché potrebbe anche indurre, finché possibile, a mollare la presa. Non a caso, in un terreno così magmatico, un’analisi Covip comparsa a giugno rivela che, per incubo di greenwashing, molti gestori di fondi pensione italiani ed europei stanno virando su prodotti meno verdi. Segnale, direi, non trascurabile e pericoloso.
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