Gestori alle prese con i social in crisi

Le recenti parabole di due storici social stimolano una riflessione profonda sul futuro dell’economia digitale e di quel vi ruota attorno. Insidiata da TikTok, biasimata dai suoi già celebrati influencer, Facebook-Meta perde in un anno oltre due terzi di capitalizzazione (da 1000 a 300 miliardi di dollari), votata a un Metaverso con meno di 200.000 utenti contro i 500.000 attesi (stima poi ridotta a 280.000).

I cinguettii passano a Elon Musk, che li compra in extremis a 44 miliardi, più di quattro volte i 10 stimati dagli analisti, chiede all’utenza un prezzo per la certificazione di identità (idea sensata che fa ribellare l’immensa platea dello pseudo-gratuito), ma promette un’assoluta libertà di parola prossima all’anarchia che scuote e allontana gli investitori. Due fattori parificano le gaussiane cadenti. Twitter licenzia metà dei 7.500 dipendenti, Meta ne taglia il 13% (11.000), nel frattempo gli inserzionisti fuggono. Vacilla la mitologia del digitale come convertitore di lavoro a somma zero, s’infrange il sogno del posto fisso informatico, la pubblicità si riposiziona forse rimpiangendo la tradizione. Sostenibilità a parte (troppo facile infierire), le reti generaliste perdono charme. Nate come simil-onlus e ora in affanno come Pmi padronali in crisi identitaria e di bilancio, se in meno di un ventennio avevano bene o male rivoluzionato i modelli comunicazionali, oggi si risvegliano fagocitate dalla stessa disruption di cui si proclamavano pioniere.

Donde la nemesi? Il crescente declino dei social riflette (o ha provocato?) i gusti della gioventù, consumatrice attuale e futura, disavvezza al naturale anelito proprietario sopravanzato dal bisogno esperienziale incerto, volatile, imprevedibile. Il successo di TikTok, sancito dai reels (video istantanei autoprodotti e copiabili), è la più vivida spia della metamorfosi, dove il pensiero scritto viene scalzato dal fuggevole microfilmato: la presunta libertà di parola (se tutti parlano, nessuno è ascoltato) è tale e tanta da aver stancato l’utenza giovanile di massa. Meglio l’experience, facile da provare, più facile da scordare.

Solo un tema filosofico e sociologico? Per niente. L’inversione di rotta ha un impatto prepotente su produzione e investimenti. Non è affatto scontato che il consumo di beni fisici, moda e lusso compresi, registri da qui a un decennio gli stessi livelli del passato, sicché i produttori dovranno ripensare a breve le loro strategie: nel mondo del car&bike sharing ci sarà (in parte già c’è) anche lo sharing di abiti, scarpe, borse, case, uffici, pc e tablet, con inevitabile contrazione dei volumi di vendite. Il lavoro più duro però spetterà ai gestori, specie se di fondi previdenziali, avvezzi per mestiere a stimare rese fra i trent’anni e il mezzo secolo, per loro diverrà sempre più scomodo cavalcare un’onda così instabile e bizzosa. Sarebbe un’idea creare una neo-specie di Fia (fondo di investimento alternativo) in grado di tracciare e replicare le tendenze evolutive dei consumi, una struttura di investimento abile ad intercettare le mutevoli eccitazioni dei moderni consumatori, sfruttarne i picchi di crescita e dismetterli in fretta per creare margini di reinvestimento nelle nuove tendenze. Si dirà che, per un fondo che acquisti azioni, già oggi è possibile compiere queste mutevoli scelte ma il punto è un altro. Non si tratta di indirizzare le decisioni in maniera predittiva ma di creare un vero e proprio consumer tracking fund in grado di cambiare rapidamente la politica d’investimento, spaziando fra i settori in cui i consumi si spostano, correggendo il tiro e facendo retromarce se la tradizione tornasse in auge. Il tutto senza dover cambiare ad ogni passo il regolamento di gestione, non facile ma neppure impossibile da concepire e scrivere. A proposito di tradizione, stando al Billionaire Index di Bloomberg, Ferrero è più ricco di Zuckerberg. Cioccolata batte social? Gestori, suggerirei di rifletterci.

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Nato a Casale Monferrato il 18 novembre 1962, alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato con lode all’Università di Pavia nel 1985.
Allievo del Prof. Ghidini e suo stretto collaboratore da oltre trentacinque anni, è divenuto socio dello Studio sin dalla sua fondazione e riveste il ruolo di managing partner.
È iscritto all’ordine degli Avvocati di Milano dal 1990. Nell’ambito dello Studio, si occupa prevalentemente delle problematiche bancarie, finanziarie, contrattuali, e societarie.