Debiti pubblici: sviste e sorprese fra presagi ansiogeni e illogici
Sul New York Times dell’8 giugno Paul Krugman invitava gli americani a non sovra-ossessionarsi per il debito pubblico (che è salito al 123% del pil ed è stimato dal Fmi al 137,5% nel 2028, oltre il +4% annuo in un quadriennio). Il Nobel menziona debiti non ripagabili: chi salderà i debiti della Seconda Guerra Mondiale (come quelli ex Covid, chioserei)? Si dice scettico sull’ansiogena proiezione debito/pil e spiega che il guaio c’è se il debitore deve rimborsare in moneta diversa dalla sua (il Sudamerica insegna). Cioè: senza rischi di cambio e a pari valuta, il debito pubblico può essere costantemente rifinanziato senza bisogno di lanciare continui, ansiogeni allarmi.
Il debito è un ircocervo, la cui vera taglia dipende da come lo si soppesa. Il Fiscal Debt Monitor dell’Institute of International Finance, uscito nel maggio scorso, usa il più realistico dei criteri: somma le esposizioni di Stati, banche, famiglie e imprese. Da qui un dato che farebbe tremare portafogli e bilanci: il rapporto debito reale/pil del pianeta al 31 marzo scorso quota al 333%. A sentir altezzosi soloni e agenzie varie, il mondo sarebbe tecnicamente fallito: gli Usa sono saliti del 17% e il Giappone viaggia al 600%, mentre l’Eurozona è poco sotto il 350% e – sorpresa – l’Italia al 275%.
Tornando al nevrotico metodo normativo (debito/pil), Eurostat fotografa la situazione europea nel quadriennio 2020-2023. Nuovo coniglio dal cilindro: il debito dell’Eurozona sale al 27,8% ma in Italia l’aumento s’arresta al 18,8%, il più basso in assoluto (26,7% in Germania, 28,6 in Spagna, 30 in Francia, 21,7 in Olanda). Non basta: interessi a parte, l’Italia ha aumentato il debito del 7,1%, la Germania del 21,6, la Francia del 23,1, la Spagna del 18,9, l’Olanda del 16,2. In parallelo e rispettivamente il peso degli interessi è +11,7%, +9,7%, + 6,9%, +5,1. Al netto di interessi il rapporto italiano 2023 scende al 123,8% (come quello attuale degli Usa che non spaventa Krugman, così come non impaurisce quello giapponese salito al 255%).
Colpa dello spread? Forse, ma lo spread non può basarsi su una maniaca frazione ignara di almeno quattro fattori. Il primo: la forza finanziaria di un Paese non si misura sull’arbitraria correlazione debito/pil ma sulla ricchezza netta delle famiglie e sulla concentrazione dell’esposizione (in Italia i 3/4 del debito sono in mano a enti, banche e famiglie nostrane, mentre in Francia 1,4 miliardi, il doppio che da noi, sono in mani straniere; sicché il 75% degli interessi pagati dallo Stato tornano in conti italiani e ampliano la capacità di autofinanziamento mentre i transalpini possono farlo solo per il 50% e nel durante il debito/pil francese sfonda il 112%. Perché rating così diversi? Dogmi esausti del credo contabile a senso unico). Secondo fattore: una società molto indebitata ma che continui a onorare i suoi impegni non può ritenersi inaffidabile: alla storia finanziaria italiana, dal Dopoguerra in poi, il default è oggetto sconosciuto. Terzo fattore: la crescita del debito è direttamente proporzionale all’aumento del welfare, gli Stati meno indebitati sono quelli con i welfare peggiori (Uk a parte dove il debito in 14 anni, Brexit inclusa, è salito dal 70 al 90% ma alimentazione, sanità e istruzione sono al degrado). Non a caso in Cina, dove l’istanza di welfare sempre più incalza, il Fmi stima che il debito quasi raddoppierà in 10 anni (60% nel 2019, 110% nel 2029). Quarto fattore: la solvibilità di uno Stato dipende anche dalla crescita cumulata del pil. Fra l’ultimo trimestre 2019 e il primo del 2024 l’Italia è al 4,6%, la Spagna al 3,7, la Francia al 2,2, la Germania allo 0,3.
Commenti? Almeno due. Dov’è finito l’obiettivo di espungere l’obbligo di rating nei regolamenti comunitari? Non saprei dirlo. Ha ragione Krugman col suo «don’t obsess over»? Indubbiamente, ma bisognerebbe metterlo legalmente nero su bianco. Discutiamo di questo invece che del Mes.
Emilio Girino
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