Aiuti di Stato in libertà: reagire con astuzia al colpo basso tedesco
Screzi, tensioni, mancati inviti, geli e altre affinità litigiose appartengono al folclore o al balletto politico. Ciò che conta è il risultato. E il punteggio vincente se lo è assicurato il 10 febbraio Olaf Scholz nel Consiglio europeo chiamato a legittimare rilassanti (leggasi: assolute) scelte nazionali di sostegno statale nei settori dell’industria energivora e nella transizione verde. A nulla è servito il saggio richiamo del ministro Giorgetti ad accompagnare la concessione con un ritocco dei parametri di stabilità volto a schivare disallineamenti fra paesi che possano permettersi diversi livelli di spesa rispetto ai vincoli di bilancio.
È lo stesso Scholz che nel luglio 2022, quando Mosca minacciava la non riapertura del NordStream1, era pronto a cancellare lo Schwarze null, lo zero nero, cioè pareggio strutturale e indebitamento netto allo 0,35% del Pil, regola aurea della sedicente virtuosità teutonica. Il dietrofront iper-keynesiano dei tedeschi, angosciati dai 2000 miliardi di dollari stanziati dagli Usa per infrastrutture, microchip e green transition, mira ad un obiettivo ovvio: permettersi, grazie ai maggiori spazi di manovra contabile, di riacquisire l’egemonia perduta fiaccando i partner ammanettati dai vincoli bilancistici, Italia per prima. Par di tornare all’estate 2012, ma in peggio. Siamo in presenza di un’inequivoca posizione opportunista che riecheggia, elevandola a potenza, il suicida motto inglese che portò al disastro di Brexit: Europa quando serve, no Europa se non ci fa comodo.
Il discorso ripiomba sul piano ragionieristico, il cui epilogo è la litanica ripetizione del rischio-Italia, sfociante nel dogmatico rialzo dello spread. In realtà, un’analisi complessiva del bilancio italiano sbugiarda quell’artefatto teorema. I dati della Commissione europea e di Eurostat, pubblicati a fine gennaio, dimostrano l’opposto. Dal 1995 in poi l’Italia ha cumulato un avanzo primario per 25 anni, contro i 19 dell’Austria, i 17 della Germania, i 6 della Francia, gli 11 della Spagna, i 16 dei Paesi Bassi, i 7 del Regno Unito, i 9 degli Usa (nessuno in Giappone). Il valore cumulato, incluse le previsioni sino al 2024, è di 583 miliardi – il più elevato al mondo, paesi petroliferi esclusi. Raffrontando i terzi trimestri 2021-2022, la rielaborazione dimostra che il debito pubblico italiano è aumentato dell’1,3%, miglior performance europea contro il 5% spagnolo e belga, il 4% tedesco e francese, sino al fanalino di coda austriaco (7%). Può seriamente, razionalmente parlarsi di rischio Paese?
Ora serve giocare d’astuzia e utilizzare al massimo la leva dell’aiuto senza la creazione di nuovo debito. Un miraggio? No se solo, in luogo di stanziare denaro pubblico, si stimolasse nei settori in cui la libertà di manovra è ammessa l’investimento privato, attraverso una riduzione fiscale dei prelievi sui redditi da capitale generati dai titoli di quei settori. Basterebbe allineare la tassazione su quei titoli a quella delle emissioni statali, dal 26% al 12,5%. Il raggio applicativo è amplissimo: industria chimica, automotive, infrastrutture civili e commerciali, tutte le soluzioni di transizione ecologica, tutti i titoli energetici o di imprese energivore. Considerando che la media di tassazione sul capital gain in Europa viaggia intorno al 19,5%, una simile misura drenerebbe enormi liquidità private, italiane ed estere, la perdita fiscale sarebbe compensata dai maggiori flussi d’investimento, le imprese del settore trarrebbero linfa dal sistema privato senza incrementare il debito pubblico.
La misura dovrebbe estendersi indifferentemente a società quotate e no e a qualsiasi tipo di titolo, azioni, obbligazioni ma anche certificates e altri derivati uniformi, così da ampliare le soluzioni di finanziamento ammesse al beneficio. Aiuto di stato? Ovvio, ma “ognuno può e deve far da sé” è lo sfidante messaggio tedesco. Perché non raccogliere la sfida?