Semplificazioni e società: scimiottare l’Olanda non ha senso

Il governo aveva annunciato riforme in tema di diritto societario col proposito di ravvicinare le legislazioni olandese e italiana, la prima accusata di calamitare molte società inducendole a spostare la sede legale in Olanda, dove il quadro normativo sarebbe più snello e meno bizantino del nostro.
Il proposito è rimasto tale, essendo, prima che onirico, tecnicamente errato. Il diritto societario olandese non è strutturalmente troppo diverso da quello italiano. Si parte dalla s.n.c. (Vennootschap Onder Firma-Vof) per arrivare alla s.p.a. (Naamloze Venootschap-Nv), transitando per la popolarissima s.r.l. (Besloten Vennootschap-Bv). Là, come da noi, una Bv o una s.r.l. può essere costituita con capitale simbolico. La vera seduzione consisterebbe nella possibilità di attribuire voti rafforzati, con moltiplicatori variabili a seconda che il socio possieda stabilmente il 25 o il 30% del capitale, tali da garantire il controllo del cda anche con quote ben inferiori al 50% + 1. Che c’è di strano?
Il voto plurimo, introdotto con la riforma del 2014, consente analoga facoltà alle imprese italiane. Ovvio che la società italiana sprovvista di tali congegni debba passare attraverso una riforma statutaria e scontare il rischio del recesso dei soci dissenzienti con conseguente sensibile depatrimonializzazione. Più semplice dunque andare direttamente altrove. Senza vieti preconcetti, il voto rafforzato ha una sua ragion d’essere: è vero che la regola «un’azione = un voto» suona più democratica poiché ripartisce in modo rigorosamente proporzionale guadagni e perdite su chi maggiormente ha investito.
Neppure però è sbagliato che chi ha stabilmente investito possa godere di un trattamento privilegiato rispetto a chi lavora di «mordi e fuggi» e, d’altronde, la nostra legge societaria è costellata, a cominciare dalle vecchie azioni di risparmio, di forme partecipative diverse da quella percentual-tradizionale (azioni a voto limitato, senza voto, con voto scalare o con tetto massimo). Né va trascurato che già la riforma Vietti del 2003 consegnò alle imprese un’amplissima gamma di opportunità e una forte elasticità nella costruzione delle regole sociali (di cui spesso non ci si è avvalsi).
Il vero problema resta invariato. L’Olanda è, per tradizione mercantile, un Paese fiscalmente accogliente per gli investitori esteri. Ricorderemo il celebre Dutch Sandwich in auge negli anni ’80 (holding che trasferisce utili in una società dei Paesi Bassi, per rigirarli in una colonia antillana rendendoli invisibili), poi rimosso su spinta Ue.
Il che non ha però impedito la prosecuzione di politiche tributarie compiacenti (dividendi e capital gain fuori imponibile, tassazione pressoché inesistente di interessi e royalty, pressione fiscale massima sulle imprese al 20-25%). E qui torniamo alla perenne assenza di un livellamento del prelievo tributario europeo, il quale permette la legittima formazione, in Olanda e altrove, di sacche di convenienza all’interno di quello che dovrebbe viceversa essere un sistema (anche) fiscalmente omogeneo precludendo il tax shopping – come confermano anche l’andamento del negoziato sul Recovery Fund e la recente pronuncia della Corte Ue sul caso Apple irlandese.
Da parte nostra, un’autentica riforma fiscale in grado di trattenere e attrarre imprese non è mai stata attuata: mai si è pensato di istituire soluzioni di tax ruling (contrattata predeterminazione del carico fiscale per dati periodi), sono più di tre anni che il patent box non dà frutto, la valorizzazione della proprietà intellettuale in bilancio resta complessa e controversa, gli sgravi fiscali per assunzioni e investimenti sono frammentari o, peggio, volubili e precari. In luogo di scimmiottare modelli societari di cui già disponiamo, sarebbe tempo di copiare soluzioni stabili d’incentivo fiscale. Il tempo non è ancora scaduto, ma ne resta poco.