Qualche idea per valorizzare (e salvare) i negozi di prossimità

Da sempre mi irrita sentir parlare di nanismo imprenditoriale italiano: solo pmi padronal-familiari, secondo letture assai superficiali. Ad esser precisi, le pmi, dice un rapporto del Parlamento Europeo di quest’anno, «costituiscono il 99% delle imprese dell’Ue. Forniscono due terzi dei posti di lavoro nel settore privato e contribuiscono a più della metà del valore aggiunto totale creato dalle imprese dell’Unione». Sono circa 25 milioni e danno lavoro a circa 90 milioni di persone (quante ne resteranno non saprei). Non saranno iperdigitalizzate, forse sono un po’ chiuse, sicuramente possono migliorare, ma pur nella loro snobbata taglia producono più del 50% del pil europeo e in questa pandemia, aggravata da nevrosi iconoclaste, soffrono pesantemente: l’ultimo studio Confimprese-Ey registra crolli del 50,3% nella ristorazione e del 36,5% nell’abbigliamento.
Ma chi e che cosa sono le pmi? Lo spiega l’articolo 2 della Raccomandazione della Commissione Ue 6.5.2003 (richiamata da una pletora di provvedimenti, emergenziali compresi): 1) la media impresa ha meno di 250 addetti e fatturato non maggiore di 50 milioni di euro o totale di bilancio annuo non maggiore di 43; 2) la piccola impresa ha meno di 50 addetti e fatturato o totale di bilancio di non oltre 10 milioni; 3) la microimpresa ha meno di 10 di addetti e fatturato o totale di bilancio sotto i 2 milioni. Fra i sei pilastri del Reg. Ue 2021/241 (Recovery Fund articolo 3) leggo: «un mercato interno ben funzionante con pmi forti».
Ci sono pmi divenute grandi che, con meno di 250 addetti, fatturano oltre 100 milioni. Ma ci sono microimprese, dal verduraio al gelataio, dalla latteria alla merceria, dal macellaio al corniciaio, dalla profumeria alla calzoleria e ben altri, che si chiamano esercizi di prossimità. Autorevoli stime ne predicono la fine: uffici striminziti, lavoro agile imposto e perdita di socialità ridurrebbero i centri storici a luoghi verdi, asettici, elettrificati e senza negozi. Che gioia percorrere Rialto o il Ponte Vecchio, passeggiare sulle Ramblas o nel Marais, vagare in via Condotti o nei viottoli di Praga o di Amsterdam senza antiquari, botteghe di diari, maschere e stilografiche, negozi artigianali, strabilianti librerie, atelier di artisti nascenti, birrerie o bruin café!
Accantonando nostalgie che ben presto rimpiangeremo, serve un piano forte e deciso per restituire agli esercizi di prossimità il diritto di vivere e a noi quello di frequentarli di persona o in remoto: e serve attuarlo subito. Perché il Recovery darà frutti nel medio-lungo termine, le saracinesche s’abbassano in un soffio. Si cominci col favorire accordi para-cooperativi leggeri (ne ho molti in mente), creare portali-vetrine comuni gestiti dalle associazioni categoriali o di quartiere, replicare lo schema per i centri urbani più piccoli consorziandoli in micro-aree di eccellenza, elaborare sistemi di prezzo capaci di sconfiggere la concorrenza di e-commerce plurimarca, stimolare nuove tecniche promozionali a basso costo a forte vocazione competitiva, introdurre sistemi di consegna a corta distanza che agiscano in una o due ore invece che in 24, stringere alleanze con corrieri cittadini invece che con ciclo-schiavi, ideare garanzie sulle vendite a risultato rapido (uno o due giorni), stimolare accordi di scala con emittenti di carte di credito o debito, sfiancare la disintermediazione globale ripristinando l’interrelazione locale. Non guasterebbe un bonus di prossimità per defiscalizzare completamente, con un incremento virtuale del 100% del costo, tutti gli investimenti volti in queste direzioni. Insomma: far evolvere gli esercizi di prossimità senza privarli della loro tradizione identitaria, anzi rafforzandola in chiave moderna. Non sarebbe questa una via per creare «un mercato interno ben funzionante con pmi forti» come Recovery comanda? Per una volta, e per fortuna, sul ponte di comando vi sono tecnici in grado di farlo. Se lo riterranno, daremo volentieri una mano, assieme ad altre idee.